skip to Main Content
Michele Scarponi, La Morte E Uno Sport Facile Da Amare Ma Difficile Da Capire (di Marco Bonfiglio)

Michele Scarponi, la morte e uno sport facile da amare ma difficile da capire (di Marco Bonfiglio)

Quando ho saputo dell’incidente di Michele Scarponi, stamattina presto, stavo per fare quello che stava facendo lui quando è stato investito. Uscire per allenarmi in bici. E così per qualche minuto sono rimasto indeciso sul da farsi, davanti allo schermo e a poche gelide righe che mi informavano che uno dei miei eroi del ciclismo era morto sul colpo. Quello stato di confusione è durato poco. Ho preso la bici e sono uscito. E tutto in qualche modo è stato uguale a tutte le altre volte che mi sono allenato e ho sputato l’anima in salita, ma anche profondamente diverso. Triste, sicuramente. Ma più consapevole, direi.

E’ naturale che una notizia del genere ti modifichi la giornata, probabilmente tutti i prossimi giorni, sicuramente il modo in cui vivrai i prossimi appuntamenti ciclistici. Michele Scarponi era uno dei miei eroi del ciclismo perché era più simile a noi, che lo facciamo per sfida e per divertimento, rispetto a loro, che lo fanno per professione oltre che per passione. Le prime immagini che ho di lui è una faccia di gomma, piena di sudore e smorfie su qualche salita alpina al Giro d’Italia. Lo vedevo con la zip abbassata, la catenina al collo, la barba perennemente sfatta, che tirava. Non era questione di palmares, pure se ha vinto un Giro in contumacia per squalifica di Contador, pure se è finito in mezzo a una storia di doping come tanti, troppi, prima e dopo di lui. E’ che Michele Scarponi sorrideva sempre. Aveva sempre una battuta per sdrammatizzare, dopo una vittoria, dopo una giornata tremenda, in mezzo al gelo, nell’inferno delle tappe estive al Tour. Era come noi quando usciamo con gli amici e dopo la salita ci fermiamo a riempire la borraccia e ci prendiamo per il culo a vicenda. Poteva fare il capitano dell’Astana tra un paio di settimane, ma è stato il più fidato gregario di Nibali e Aru negli ultimi anni. Un compagnone. Uno di noi.

Ma il fatto è che il ciclismo è uno sport infame. Tra tutti, il più infame. Amarlo è facile e in Italia ancora di più nel dopo guerra. Ti bastano due ruote, una catena, un cuore che batta il meno possibile, due gambe e tanta forza di volontà. Lo sforzo lo intuiscono tutti, ed è pieno di gente nel mondo che riempie le strade quando passano i professionisti. Ma capirlo, se in bici non ci vai in un certo modo, non è possibile. Ed è questo che lo rende unico, ma anche inaccessibile. Per quante pedate a un pallone tu possa dare, difficilmente nella tua vita giocherai in uno stadio davanti a 60000 persone. Per quante racchette tu possa tenere in mano, non saprai mai la sensazione che si prova a pestare l’erba sul centrale di Wimbledon. Ma se vai in bici, sei sulle stesse identiche strade che fanno i tuoi eroi del ciclismo. Stessa fatica. Stessa sensazione, anche se velocità diversa. Stesse insidie.

Fare comprendere a chi non l’ha mai fatto cosa si prova a scalare una montagna solo con le proprie gambe e la forza di volontà è quasi impossibile. Il caldo, l’aria che ti manca, il freddo improvviso, la pioggia che ti tormenta e non c’è nemmeno un tetto nel raggio di decine di chilometri, il vento che non importa da che parte vai perché tanto è sempre come se fosse contrario. Sono tutte esperienze che segnano chi l’ha provato. Ma soprattutto, la differenza tra noi e i professionisti che corrono su strade chiuse, è che quando sei in bici sei il più debole della strada. Sei su un trabiccolo che pesa circa sette chili contro scooter, moto, macchine, camion. Devi accettare questo fatto, che ai più può sembrare spaventoso, quando ti muovi per strada. Devi accettare di pensare per te, quando arrivi a un incrocio, ma anche per gli altri che spesso non lo fanno. Io so di avere la precedenza ma so anche che nel dubbio devo frenare. Perché se non lo faccio, e non lo fa nemmeno quello che arriva dall’altra parte, sono finito anche se ho ragione io.

Questa consapevolezza, per quanto paradossale possa sembrare, invece di generare ansia mi provoca un forte senso di sicurezza quando sono sopra la bici. Lo so che gli automobilisti non mi possono capire se sto per un attimo in mezzo alla strada perché a destra ci sono buche, vetri, fossi. La maggior parte delle volte mi prendo le buche, i vetri, i fossi per farli passare e loro mi suonano il clacson lo stesso. Non è giusto, ma lo devo accettare. Ci ho pensato di nuovo stamattina. E’ come la morte. Non è giusta, ma bisogna accettarla. I professionisti, quando si allenano, sono come noi. Vanno per strada e ci sono gli altri veicoli al contrario di quando gareggiano. Solo che io mi alleno a 25 km orari di media, loro a 45 o 50 di media. E chiunque vada in bici sa che prevedere e reagire ai pericoli andando a 50 all’ora è completamente diverso dal farlo andando 25 km orari più piano. E’ sicuramente uno dei motivi per i quali i professionisti hanno più incidenti in allenamento che in gara. Non so se sia stato questo che ha ucciso Michele Scarponi.

So che una volta che sali in bici, smettere è quasi impossibile. Sei il più debole, devi stare sempre con i riflessi attenti e al tempo stesso ti aiuta a mettere in ordine le idee. Nella maggior parte delle attività gli esseri umani passano il tempo a scappare da qualcosa. In bici, quando torni dopo 10 o 100 km, ritrovi sempre te stesso. So che è quasi impossibile da capire per chi non lo fa in un certo modo. Centinaia di volte, soprattutto d’estate, soprattutto ai semafori, qualcuno abbassa un finestrino affiancandomi e vedendomi grondare di sudore mi chiede: ‘Chi te lo fa fare?’ Lo so che non lo possono capire. Lo so che glielo potrei spiegare nei minimi dettagli, questo fatto del sentirsi al sicuro in mezzo a una giungla di asfalto e di veicoli, ma che arriverebbero solo a un certo punto del ragionamento. Faccio fatica anche a spiegarlo a mia mamma, con cui parlo tutti i giorni. So che lei è preoccupata ogni volta che sa che sono in bici. Sa anche che statisticamente succedono più incidenti domestici o guidando un’automobile di quanti ne succedano ai ciclisti, ma non cambia. Lei sa che sono il più debole per strada. Io so di esserlo ma non mi ci sento, traggo forza dalla debolezza, è questa la differenza. E non so spiegargliela.

Poi diventi vecchio quando i tuoi atleti preferiti sono più giovani di te. E Michele Scarponi invece era ancora uno di quelli che io consideravo più vecchi, anche se rispetto a me aveva solo un anno in più. I ciclisti sono diversi dagli altri sportivi. Sono magri all’estremo quando corrono e rimangono tali quando smettono. Perché anche quando smettono di farlo per lavoro, in bici non smettono mai di andarci. Non lo so se Michele Scarponi parlava di questo con sua moglie. Magari lei gli ha chiesto mille volte come mai continuasse, anche se aveva ottenuto tutto. Vittorie, rispetto, stima, traguardi. Non lo so se stamattina, uscendo per il suo ultimo allenamento, ha pensato che in casa lasciava due bambini che ieri sera venivano fotografati sorridenti a cavalcioni sulla sua schiena e da oggi saranno costretti a vivere senza un papà. Non credo, altrimenti non l’avrebbe fatto. Non credo, altrimenti si sarebbe sentito debole. E un ciclista, debole, non ci si sente mai. E questo fatto di esserlo e di accettarlo, ha fatto la differenza stamattina nella mia testa mentre pedalavo i miei 84 km.

Sei il più debole della strada, devi pensare anche per gli altri e a volte non è abbastanza, perché un furgone Iveco ti viene addosso e il suo autista riesce solo a dire ‘Non l’ho visto’. Non so a che velocità andasse Michele Scarponi. Più di quella che io raggiungo in discesa, immagino. Ma non è quello il punto. Il punto è che le tragedie non possono essere evitate, nel ciclismo, nello sport, in ogni momento della vita. Ma andare in bici insegna anche a non lasciarsene condizionare. Quando sei in mezzo a una salita, rimani sempre colpito di dove ti hanno appena portato le tue gambe e di dove ti sta per portare la tua forza di volontà. In qualsiasi altro sport, puoi smettere in qualsiasi momento. Quando sei in bici, se vuoi arrivare in cima devi continuare anche se i tuoi muscoli ti implorano del contrario. Se vuoi tornare indietro, devi fare ogni singolo dannatissimo metro che ti separa da casa. Non si scappa e non ci sono scorciatoie. Quale meravigliosa metafora della vita racchiusa in un così semplice mezzo meccanico. E’ per questo che sono uscito lo stesso anche quando ho saputo che uno dei miei eroi del ciclismo era morto facendo quello che amava. Perché sentirmi più debole, in quel momento, mi ha anche fatto sentire più forte.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Back To Top
×Close search
Cerca